Figli nati da fecondazione eterologa: se e quando dirlo?

Un tema di grande attualità, che porta con sé risvolti psicologici importanti, è quello della fecondazione eterologa. Sempre più coppie, a causa di problemi di infertilità o altre difficoltà di concepimento, scelgono di provare a diventare genitori grazie a questa tecnica di procreazione assistita che si avvale di ovociti di una donatrice o di sperma di un donatore.

Si stima che oggi in Italia circa 1 bambino su 100 sia nato attraverso questa procedura. Ma si parla ancora poco delle domande che si pongono questi genitori circa il dirlo ai propri figli e delle possibili implicazioni sul loro vissuto emotivo.

È giusto parlarne con loro? A quale età? Questo potrebbe farli sentire “diversi”? Rivelarsi in qualche modo traumatico?

Le opinioni a riguardo sono diverse.

I sostenitori del “non dirlo” ritengono che non ce ne sia bisogno, in quanto il ruolo genitoriale dei coniugi è effettivo ed esclusivo e non deve essere minato dalle possibili fantasie rispetto alle origini biologiche del bambino. Inoltre temono che egli possa in qualche modo essere destabilizzato da questa notizia nella costruzione della propria identità. Un altro deterrente è rappresentato dai pregiudizi che circolano riguardo questo tipo di concepimento, vissuto ancora  con diffidenza da molti, e quindi dalla volontà di proteggere il figlio.

Chi invece sostiene la necessità di comunicare al figlio le sue origini crede nell’importanza di instaurare e preservare con lui un rapporto sincero e autentico, basato sulla fiducia. Inoltre teme che potrebbe essere più destabilizzante venirlo a sapere nel corso della vita da altre persone o in seguito a circostanze particolari che richiedano un accertamento genetico (es. esami genetici per motivi di salute o prevenzione, necessità di una trasfusione in ospedale…)

Ma cosa dice la scienza?

In uno studio del 2013 è stata confrontata la capacità di regolazione emotiva tra bambini nati da maternità surrogate, fecondazione eterologa e concepimento naturale, per capire se la presenza di un legame biologico (sia genetico o attraverso la gravidanza) incidesse in qualche modo sui bambini che sono stati valutati in tre diverse fasi di vita: a tre, sette e dieci anni attraverso il Strengths and Difficulties Questionnaire. È emerso che una variabile importante nel determinare se le capacità di regolazione emotiva del bambino fossero effettivamente ridotte o meno era il grado di distress nella madre nello svelare (o nel tener nascoste) le origini biologiche del figlio.

Cioè quanto più la madre provava disagio nel comunicarlo al figlio, temeva di non essere riconosciuta pienamente come genitore o si sentiva minacciata dalle eventuali fantasie sulla donatrice che questa informazione potrebbe sollecitare, tanto più era probabile che il figlio ne fosse negativamente condizionato.

Leggendo i risultati di questa ricerca mi è venuto in mente il bambino che quando cade o si avvicina a qualcosa di nuovo osserva le reazioni della madre per capire come reagire. Se la vede spaventata è probabile che piangerà o si allontanerà dallo stimolo nuovo, se invece la vede sorridere ne sarà rassicurato.

Credo sia un po’ la stessa cosa. Il figlio, nell’avvicinarsi alla scoperta delle proprie origini “insolite”, si baserà su ciò che leggerà negli occhi della madre per trovarne una chiave di lettura: se tu sorriderai, si avvicinerà sorridendo alla scoperta della propria storia. E un rapporto sereno col proprio passato pone le premesse per affrontare serenamente il futuro.

In fondo io credo che una donna che partorisce, nutre, cresce, cura, protegge, sostiene, incoraggia, fa sorridere, ama il proprio figlio non abbia nessuna ragione per sentirsi minacciata da delle molecole di Dna.

Le “ragioni del no”, che sono comunque valide e legittime, invece che per convincersi a non parlarne, potrebbero essere utilizzate come argomentazioni da ripetere a se stessa per sentirsi sicura nell’affrontare questa delicata comunicazione.

Un altro importante aspetto da tenere presente è che ci sono due fasi di vita in cui si è più recettivi e pronti ad accogliere questo tema:

  • La prima è tra i 3 e i 5 anni, quando inizia a chiedersi come sia venuto al mondo. Attraverso la lettura di un racconto lo si può portare ad assimilare la sua storia in modo più semplice e spontaneo, con naturalezza. Se il bambino conosce e capisce le proprie origini da piccolo, ha la sensazione di saperlo “da sempre” e per questo motivo non lo chiederà in futuro. Ci sono diversi racconti che si possono utilizzare: c’è la storia dell’aiutante, in cui i genitori pongono l’accento sull’arrivo di una persona speciale (il medico o il donatore) che li ha aiutati a realizzare il loro sogno; c’è la storia dei pezzi di ricambio, in cui l’attenzione viene messa sul corpo malfunzionante (o rotto) e sulla necessità di trovare una soluzione. Altri racconti enfatizzano il valore della famiglia indipendentemente dai legami biologici.  Ci sono poi genitori che raccontano l’evoluzione dal dolore provato all’idea di non poter essere genitori , alla fatica fatta per averlo e infine alla gioia quando hanno trovato il modo di esserlo. Una sorta di travaglio d’amore.  Cito a mo’ di esempio il libro di  Francesca Fiorentini intitolato “Storia di Cristallo di Neve . Non di cavoli né di cicogne” (Valentina Edizioni), in cui il “mago Gelo” aiuta i genitori a trasformare il loro sogno in un bambino da amare.

 

  • La seconda fase favorevole per svelare al figlio le sue origini è tra i 10 e i 12 anni, quando il bambino riceve la prima educazione sessuale a scuola e capisce come avviene la gravidanza. È in quel momento che si può spiegare, in modo più adulto, perché non era possibile concepirlo in modo naturale. Secondo gli studi è la strategia del “momento adeguato”, perché sfrutta il momento in cui il bambino apprende tematiche associate alla vita, alle relazioni sessuali e al concepimento.

 

Concludendo, non è “ciò che è accaduto” ad essere potenzialmente traumatico, ma tutto è mediato dal modo in cui è stato vissuto, elaborato e comunicato dai genitori. Le narrazioni familiari positive, in cui si descrivono le conquiste e le vittorie dei genitori, sono preziose per costruire l’autostima dei figli.

In questo modo può essere vissuta e comunicata la fecondazione eterologa: dimostra la capacità degli adulti di chiedere aiuto e di affrontare un percorso difficile, con flessibilità e resilienza. E, se raccontata così, farà sentire il figlio frutto di qualcosa di unico, speciale e prezioso.

19 Settembre 2017